La massima
Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, tutelano il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza del lavoratore stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore. Responsabilità presente, sia quando questo ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare, invece, l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento.
Il caso
Il caso riguarda un apprendista, al lavoro da una ventina di giorni, che, nel piegare tondini di ferro lunghi 10-12 cm, è stato colpito ad un occhio da una scheggia. Dagli accertamenti effettuati è emerso che gli occhiali protettivi si trovavano nel luogo di lavoro e che il loro uso era obbligatorio per disposizione dell’imprenditore; che il capo officina aveva addestrato il lavoratore per l’esecuzione del lavoro cui era stato addetto, consistente nel piegare tondini di ferro con un martello, dopo averli bloccati con una morsa e che il lavoro era di facile esecuzione. In sede giudiziale la Corte di Appello di Venezia aveva riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro e lo aveva condannato al pagamento, a favore dell’Inail, della somma equivalente dell’indennizzo pagato dall’Istituto (euro 80.750,31). La società ha quindi presentato ricorso alla Corte di Cassazione, contestando la sentenza di merito, in quanto a suo parere, i giudici, non hanno considerato che il datore di lavoro aveva dimostrato di aver fatto tutto il possibile per evitare l’infortunio. La difesa sostanzialmente contestava la decisione della Corte d’appello anche per non aver giudicato anomalo e prevedibile il comportamento dell’apprendista, poiché egli, piegando il ferro con l’incudine e non (come avrebbe dovuto) con la morsa, aveva svolto un lavoro per il quale non era stato adibito.
La Cassazione, nella sua decisione, ha confermato invece che le norme sulla sicurezza sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore anche dagli incidenti derivanti dalla sua imperizia, imprudenza e negligenza. Per questo motivo, il datore di lavoro, è inevitabilmente responsabile dell’infortunio al lavoratore sia se omette di adottare le idonee misure protettive sia se non accerta e non vigila che il dipendente ne faccia uso. Inoltre la Cassazione ha espresso anche un principio più stringente in relazione alla giovane età del lavoratore e alla sua mancanza di esperienza lavorativa, ovvero il dovere di garantire la sicurezza, diviene particolarmente ancora più intenso, in questi casi, per il datore di lavoro.
La sentenza della Corte di Cassazione – Sez. Lavoro – Sentenza 10/01/2013, n. 536
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, corredato dal relativo quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c., allora in vigere, la società ricorrente denunzia contraddittoria motivazione (art. 36o, prima comma, n. 5, c.p.c.), in relazione agli articoli 11 d.p.r. n. 1124 del 1965, 2087 e 2097 c.c., 4 d.p.r. n. 547 del 1955.
Rileva che la Corte di merito da un lato ha ritenuto il datore di lavoro responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore per avere omesso di provare di avere fatto tutto il possibile per evitare l’evento; dall’altro ha affermato, sulla scorta della prova testimoniale, che gli occhiali protettivi si trovavano nel luogo di lavoro; che il loro uso era obbligatorio per disposizione dell’imprenditore; che il capo officina aveva addestrato il lavoratore per l’esecuzione del lavoro cui era stato addetto, consistente nel piegare tondini di ferro lunghi 10-12 cm. con un martello, dopo averli bloccati con una morsa; che tale lavoro era di facile esecuzione e non comportava rischi.
Tutti tali elementi dimostravano che il datore di lavoro, contrariamente a quanto affermato dal giudice d’appello, aveva assolto all’onere probatorio posto a suo carico, e cioè di avere adottato tutte le precauzioni atte a scongiurare l’evento.
Né l’uso degli occhiali protettivi - ancorché presenti nell’officina - era necessario, trattandosi di lavoro che non comportava produzione di schegge.
2. Con il secondo motivo, cui fa seguito il relativo quesito di diritto, il ricorrente, denunziando violazione e falsa applicazione di norme di legge (artt. 2049 c.c. e 4 d.p.r. n. 547 del 1955) nonché vizio di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, deduce che la Corte di mento, per affermare la responsabilità del datore di lavoro, ha richiamato l’art. 2049 c.c.
Tale richiamo è però erroneo, riguardando esclusivamente la responsabilità civile del datore di lavoro verso i terzi per fatto illecito del dipendente. Conseguentemente la sentenza è giuridicamente errata.
3. Con il terzo motivo è denunciata violazione dell’art. 360, primo comma, n. 3 e 5, c.p.c. nonché falsa applicazione degli artt. 2087 c.c. e 4 d.p.r. n. 547.
Si addebita alla sentenza impugnata di avere escluso il rischio elettivo da parte del dipendente, senza motivare sul punto, mentre, viceversa, il lavoratore aveva tenuto un comportamento anomalo e imprevedibile utilizzando per piegare il ferro non già la morsa bensì l’incudine, lavoro questo al quale non era stato adibito.
4. Il primo e il terzo motivo, che per ragioni di connessione vanno trattati congiuntamente, non sono fondati.
E’ principio consolido di questa Corte che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare, invece, l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento (cfr., fra le altre, Cass. 24 marzo 2004 n. 5920; Cass. 8 marzo 2006 n. 4980; Cass. 23 aprile 2009 n. 9689; Cass. 10 settembre 2009 n. 19494; Cass. 25 febbraio 2011 n. 4656).
E’ altresì pacifico che il dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro a norma dell’art. 2087 cod. civ., si atteggia in maniera particolarmente intensa nei confronti dei lavoratori di giovane età e professionalmente inesperti, esaltandosi in presenza di apprendisti nei cui confronti la legge pone precisi obblighi di formazione e addestramento, senza che in contrario possa assumere rilievo l’imprudenza dell’infortunato nell’assumere un’iniziativa di collaborazione nel cui ambito l’infortunio si sia verificato (cfr. Cass. 18 maggio 2007 n. 11622; Cass. 24 gennaio 2012 n. 944 e, in precedenza, Cass. 12 gennaio 2002 n. 326; Cass. 2 ottobre 1998 n. 9805).
Nella specie, la Corte di merito correttamente ha ritenuto che l’infortunio si è verificato a seguito di una condotta non certo imprevedibile e abnorme del lavoratore, consistita nel piegare i tondini di ferro utilizzando l’incudine ed un martello anziché la morsa.
Ha fatto poi buon governo dei principi sopra richiamati, affermando che il datore di lavoro o un suo preposto non solo avrebbe dovuto mettere a disposizione dell’apprendista gli occhiali protettivi ed istruire il medesimo sull’esatto svolgimento della prestazione, ma avrebbe dovuto vigilare affinché venisse fatto effettivamente uso di tali occhiali e la prestazione venisse eseguita in conformità alle istruzioni impartitegli, tanto più che il lavoratore di giovane età ed assunto da meno di venti giorni era totalmente privo di esperienza.
Deve escludersi il dedotto vizio di contraddittorietà della motivazione. Ed infatti se è vero che il giudice d’appello ha dato atto che nel luogo di lavoro vi erano gli occhiali protettivi e che essi, per disposizione del datore di lavoro, dovevano essere indossati allorché venivano eseguiti lavori che comportavano la formazione di schegge, tuttavia ha ritenuto responsabile il datore di lavoro sotto un diverso profilo, e cioè per non avere esercitato, attraverso il capo officina o altri, la dovuta vigilanza sia in ordine alla corretta esenzione del lavoro affidato al lavoratore che all’effettivo uso da parte del medesimo delle misure protettive.
5. Quanto infine al secondo motivo, irrilevante è il dedotto errato richiamo, a pagina 12 della sentenza impugnata, dell’art. 2049 c.c. (Responsabilità dei padroni e committenti), risultando univocamente dalla stessa sentenza che la responsabilità del datore di lavoro è stata fatta discendere dalla violazione dell’art. 2087 c.c. - secondo cui l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro - nonché dalla violazione del generale obbligo di vigilanza, ed in particolare dalla specifica violazione del d.p.r. n. 547 del 1955, art. 4, lett. c), in base al quale il datore di lavoro deve disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione.
6. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, previa condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, come in dispositivo.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in € 40,00 per esborsi ed € 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.