La Corte di Cassazione con la sentenza n. 9319 del 26 febbraio 2014, ha rigettato il ricorso dei ricorrenti (datori di lavoro) condannati per omicidio colposo di un dipendente che, per scaldarsi sul luogo di lavoro, aveva acceso un pira con carta e legno utilizzando del solvente contenuto in una latta di trenta litri. Il solvente si è incendiato, e le fiamme hanno investito il lavoratore. La Corte ha confermato la condanna ai datori di lavoro, sottolineando a loro carico l’addebito di “aver omesso di riscaldare in modo adeguato l’ambiente di lavoro”. Tale omissione ha costituito la ragione per la quale il lavoratore si è determinato ad accendere un fuoco in modo del tutto inappropriato ma non dissimile da quanto fatto già in precedenti occasione, allorquando si era provveduto a costruire con mezzi di fortuna una stufa a legno.
Il comportamento dei datori di lavoro si pone quindi in aperto contrasto con quanto previsto dalla normativa sulla sicurezza e salute sul lavoro, per la quale “la temperatura dei locali chiusi di lavoro deve essere mantenuta entro i limiti convenienti della buona esecuzione dei lavori e ad evitare pregiudizio alla salute dei lavoratori”.
Se le condizioni di lavoro espongono il lavoratore a temperature non adeguate, non può definirsi abnorme il comportamento di colui che, nel tentativo di provvedersi di una improvvisata fonte di calore, utilizzò i materiali disponibili, tra i quali le sostanze infiammabili non segregate.
E’ ben prevedibile che in assenza di idoneo ed attivo impianto di riscaldamento a servizio di un vasto capannone, luogo di esecuzione delle attività lavorative, il lavoratore provveda altrimenti a predisporre una fonte di calore che renda meno disagevole lo svolgimento delle proprie mansioni.
In allegato la sentenza della Corte di Cassazione n. 9319 del 26/02/2014.