Responsabilità amministrativa delle imprese. Il decreto legislativo 231/01. Riguarda anche alcuni reati ambientali e sulla sicurezza nel lavoro
Il decreto legislativo n. 231/2001, entrato in vigore il 4/07/2001, ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico una novità non solo di natura giuridica ma anche di portata culturale: la previsione di una forma di responsabilità degli enti/imprese per reati commessi nel loro “interesse o vantaggio” da soggetti ad essi appartenenti.
Ovviamente questa responsabilità non si sostituisce ma si aggiunge a quella personale dell’autore del reato.
Dunque anche le imprese possono “commettere” reati.
Se procediamo ad un’analisi del decreto legislativo 231/01 ”Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica” possiamo notare che la normativa sostanzialmente non distingue tra piccole medie o grandi imprese e che la responsabilità per quanto definita “amministrativa” è , al di là delle dispute interpretative, “sostanzialmente” penale. Non a caso diversi articoli del decreto legislativo rinviano a disposizioni che regolano il processo penale.
L’ente/impresa non risponde per qualsiasi tipo d'illecito ma solo per quelli espressamente previsti dal decreto legislativo 231/01 e che sono definiti ”reati presupposti”.
Ma quali sono i reati che possono causare questa responsabilità? Originariamente il legislatore ha ristretto il campo ad una serie di violazioni comprendenti i reati di concussione, corruzione e frode, cui si sono aggiunti i reati contro l’industria ed il commercio , i reati societari etc.
Questa scelta definita “ minimalista” era dovuta al carattere fortemente innovativo della normativa per cui il legislatore ha ritenuto che “ perlomeno nella fase iniziale, fosse opportuno contenere la sfera di operatività allo scopo di favorire il progressivo radicamento di una nuova cultura aziendale”.
Nel corso degli anni è stata effettuata però una costante estensione dei reati sino a ricomprendere alcune tra le materie che più direttamente coinvolgono l’impresa: la sicurezza sul lavoro e l’ambiente.
In particolare, la legge n.123 del 2007 (legge-delega per il testo unico in materia di sicurezza del lavoro) ha introdotto tra i “reati presupposto” l’omicidio colposo e le lesioni colpose gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.
Infine Il decreto legislativo 121/2011 ha inserito alcuni reati in materia ambientale già previsti dal decreto legislativo n. 152/2006 quali: l’attività di gestione di rifiuti (raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, intermediazione) non autorizzata; la realizzazione o gestione di una discarica di rifiuti non autorizzata; il traffico illecito di rifiuti; le emissioni in atmosfera se il superamento dei valori limite di emissione determina anche il superamento dei valori limite di qualità dell’aria previsti dalla vigente normativa, etc.
Ma chi sono i soggetti che, con il loro operato, possono coinvolgere l’ente? La normativa fa riferimento a due categorie: i soggetti in posizione “apicale” e cioè le persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’ente, ed i soggetti in posizione “subordinata” e cioè sottoposti alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti “apicali” ( per esempio i dipendenti).
E’ altresì necessario che il reato sia commesso nell’”interesse o vantaggio dell’ente”.
Ricapitoliamo, perché sussista la responsabilità dell’ente (persone giuridiche, società e associazioni anche prive di personalità giuridica) occorre:
- la realizzazione di un reato che rientri tra i reati- presupposto;
- che il reato sia commesso da uno dei soggetti previsti (cd “apicali “ o “sottoposti”.)
- che il reato sia commesso nell’interesse o vantaggio dell’ente.
Ma perché l’impresa viene sanzionata? Perché si ritiene che, se un reato viene commesso in ambito aziendale, vuol dire che sono mancati controlli adeguati, che non sono stati predisposti gli accorgimenti preventivi idonei ad evitarne la commissione (Sentenza Corte di Cassazione n. 27735/2010). Come minimo siamo di fronte ad un “deficit organizzativo” ad una vera e propria "colpa di organizzazione" dell'ente/impresa.
E quali sono le sanzioni? Ovviamente non una pena detentiva applicabile solo alle persone fisiche ma sanzioni pecuniarie ed interdittive (queste ultime solo nei casi di particolare gravità e di reiterazione degli illeciti) nonché la confisca e la pubblicazione della sentenza.
La sanzione principale è quella pecuniaria, viene applicata per “quote” (l’importo di una quota va da un minimo di 258 euro ad un massimo di 1.549 euro) in un numero non inferiore a cento né superiore a mille. E’ vero che l’importo della sanzione pecuniaria dovrà essere commisurato tenendo conto delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente e che sono previsti casi di riduzione della sanzione, ma questo non ne attenua il rigore specie se teniamo conto della fitta rete di piccole imprese esistenti nel nostro paese.
Le sanzioni interdittive , infine, prevedono misure ancora più gravi quali l’interdizione dall’esercizio dell’attività, la sospensione o revoca delle autorizzazioni, il divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi, sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi, il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
Ma la singola azienda come può difendersi?
La difesa è possibile mediante la predisposizione di Modelli Organizzativi (M.O.) e l’istituzione di un Organismo di Vigilanza (O.D.V.) che abbia il compito di controllare il funzionamento, l’osservanza e l’eventuale aggiornamento dei modelli stessi.
Più precisamente, l’ente non risponde se prova che prima della commissione del fatto/reato, abbia adottato ed efficacemente attuato modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
La normativa fornisce solo delle indicazioni di massima su come devono essere predisposti i Modelli Organizzativi.
A grandi linee, si richiede l’individuazione delle attività “sensibili” a rischio–reato, di protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire, di flussi informativi nei confronti dell’Organismo di Vigilanza, di sistemi disciplinari idonei a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
Per quanto riguarda l’Organismo di Vigilanza le indicazioni normative si riducono ulteriormente: si richiede che sia un “organismo dell’ente” e, che sia dotato di” autonomi poteri di iniziativa e controllo”. Ovviamente, anche se la norma non lo prevede espressamente, per logica, l’Organismo Di Vigilanza dovrà essere dotato delle necessarie competenze per svolgere efficacemente la sua funzione.
Dopo un’analisi a grandi linee del d.lgs. 231 si può ragionevolmente affermare che il legislatore, pur partendo da principi condivisibili, ha emanato ancora una volta una normativa estremamente complessa e di difficile realizzazione pratica in modo particolare per le piccole medie imprese.